Quando la diagnosi arriva in famiglia: il tempo dell’ascolto e della ricostruzione

di Sonia Pirino – Psicologa clinica

Quando arriva una diagnosi di disabilità, la vita familiare cambia direzione. Si attraversano paura, incredulità, rabbia, senso di colpa. Ma dentro quel dolore si nasconde anche la possibilità di ricominciare: imparare a guardare oltre la diagnosi, riconoscere la persona, non solo la malattia. Con ascolto, strumenti adeguati e sostegno psicologico, la famiglia può ritrovare un nuovo equilibrio e tornare ad essere squadra, costruendo ogni giorno una normalità possibile.

Ricevere una diagnosi di disabilità per il proprio figlio o la propria figlia è un evento che irrompe nella vita come una frattura improvvisa. È un momento che mette in discussione tutto: il modo di immaginare il futuro, la propria identità di genitore, la tenuta della coppia, persino la fiducia nel mondo. Non ci sono parole che possano preparare a quel passaggio, né ricette immediate che lo rendano meno doloroso. La prima reazione è spesso quella del disorientamento. I genitori si trovano davanti a un linguaggio medico complesso, a informazioni da comprendere, a decisioni da prendere in tempi rapidi. E dentro, cresce un senso di irrealtà: “Sta succedendo davvero a noi?”
Segue poi una fase di disperazione, in cui prevalgono la paura e il senso di impotenza. Alcuni provano colpa — “ho sbagliato qualcosa” — altri rabbia verso il destino, i medici, o perfino verso se stessi. Si tratta di un percorso emotivo simile a quello che si attraversa di fronte a una perdita (lutto): negazione, rabbia, tristezza, accettazione. Ma in questo caso la perdita è simbolica, non del figlio reale, bensì di quello immaginato. La diagnosi non coinvolge solo il bambino: investe l’intero sistema familiare, e in particolare la coppia genitoriale, che da quel momento si trova a dover ridefinire ruoli, priorità e linguaggi affettivi. Molti genitori raccontano di aver sentito un improvviso cambiamento nel rapporto: le conversazioni ruotano soltanto attorno a visite mediche, terapie, appuntamenti; la spontaneità si riduce, e il tempo condiviso diventa tempo “funzionale”, non più di coppia. Spesso uno dei due partner assume il ruolo di “genitore operativo” — colui o colei che organizza, gestisce, pianifica — mentre l’altro si ritira, sopraffatto dal dolore o dal senso di inadeguatezza. In questo modo, la distanza emotiva cresce lentamente, quasi senza accorgersene. Non di rado emergono sentimenti contrastanti: la madre che si sente sola e non compresa, il padre che vive la fatica di “non sapere cosa fare” o teme di non essere all’altezza. Entrambi, in modi diversi, cercano di proteggere se stessi dal dolore, ma finiscono per allontanarsi. Eppure, proprio quando la disabilità entra nella vita familiare, la coppia rappresenta la prima risorsa di resilienza. Ritrovare spazi di dialogo, anche minimi, diventa fondamentale: parlare delle paure, condividere la stanchezza, riconoscersi reciprocamente come partner e non solo come genitori. Un sostegno psicologico di coppia può aiutare a ristabilire un equilibrio affettivo, a elaborare insieme la perdita del figlio “immaginato” e a costruire una nuova alleanza genitoriale basata sulla realtà, non sulla colpa o sull’idealizzazione. La coppia che riesce a trasformare il dolore in collaborazione, e la fragilità in dialogo, diventa un porto sicuro per il figlio: non perfetta, ma viva, capace di accogliere la disabilità come parte del cammino comune, e non come una distanza incolmabile. Eppure, proprio in questi momenti, la relazione genitoriale è uno degli strumenti più potenti di protezione e cura. Restare uniti non significa negare la sofferenza, ma attraversarla insieme, condividendo la vulnerabilità e chiedendo aiuto quando serve. Un percorso psicologico di accompagnamento può aiutare a dare senso alle emozioni, a nominare ciò che spaventa, a ricostruire un linguaggio comune.

 

Accanto al sostegno psicologico, è importante fornire strumenti pratici: indicazioni chiare sulle risorse territoriali disponibili (centri specializzati, servizi sociali, associazioni), percorsi educativi e riabilitativi coerenti, spazi di confronto con altri genitori che vivono esperienze simili, ossia far parte di una “rete” che permetta ai genitori di essere compresi e, quindi, aiutati.  La conoscenza, in questi casi, diventa una forma di potere: aiuta a non sentirsi soli, a non perdersi nei meandri della burocrazia, a ritrovare fiducia nel “fare possibile”. Con il tempo, l’obiettivo diventa spostare lo sguardo dalla malattia alla persona. Riconoscere che dietro ogni diagnosi c’è un essere umano con desideri, emozioni, potenzialità e limiti propri. Non un “caso clinico”, ma un figlio che chiede di essere visto, amato e riconosciuto per ciò che è. Questo cambio di prospettiva è fondamentale anche per i genitori stessi: significa non annullarsi, non rinunciare a sé, ma continuare a esistere come coppia, come individui, come persone in crescita. Un genitore che riesce a prendersi cura anche di sé trasmette al figlio un messaggio profondo: la vita, nonostante tutto, resta possibile. La famiglia, gradualmente, può allora integrare la disabilità nella quotidianità, senza farne l’unico centro, ma senza negarla. Creare routine inclusive, coinvolgere il figlio nelle piccole scelte, renderlo partecipe della vita familiare. Non esistono soluzioni perfette, ma esistono equilibri dinamici che si costruiscono ogni giorno, con ascolto e flessibilità. Accettare una diagnosi non vuol dire rassegnarsi, ma imparare a vedere la vita che continua dentro e oltre la disabilità. Significa permettersi di provare dolore, ma anche di riscoprire la bellezza dei gesti semplici, la forza dei legami, la capacità di trasformare la ferita in conoscenza. Perché la diagnosi segna un confine, sì  ma è anche l’inizio di un nuovo modo di amare.

 

 

 17 ottobre 2025 – Sonia Pirino – Psicologa clinica